Al di là del tempo

Presentazione mostra di Berceto, 9 agosto 2014

È per me un piacere e un onore presentare questa mostra che con grande apertura culturale il Comune di Berceto ospita nella casa comune, nella casa di tutti perché tutti i cittadini abbiano la possibilità di fruirne. Ci sono a Berceto altri ottimi luoghi deputati ad accogliere eventi artistici, ma questo ha un significato simbolico che non può sfuggire all’attenzione. Non è frequente che io presenti mostre di pittura, ma i due brevi articoli che ho scritto negli anni scorsi sulle esposizioni di Arnaldo Dini proprio nel ferragosto bercetano forse non sono passati inosservati.

Questa mostra ha un titolo, al quale ne aggiungerei un altro, magari come sottotitolo, ma bene in evidenza: I cieli profumati di Arnaldo Dini, vedremo poi perché.

E’ difficile dire qualcosa di nuovo su di un pittore che, se non altro per ragioni anagrafiche, è da lungo tempo all’attenzione della critica. Spero di non deludere né l’interessato che si aspetta qualche osservazione stimolante e certo rifiuta le sottolineature puramente laudatorie. E nemmeno il pubblico presente, che ritengo gradisca ricevere dal critico – nel mio caso, tengo a precisare, il critico è presunto tale – uno spunto e ancor più una chiave di lettura diversa, originale, magari anche provocatoria e pretestuosa, per meglio orientarsi nella successiva visita della mostra e cogliere gli aspetti meno consueti e banali delle opere esposte. In ogni caso prendiamo oggi questo evento come una festa, come un modo per onorare un artista che ha dato ampie prove della sua non comune dimensione culturale espressa anche in campo didattico ed educativo.

La mostra che ci apprestiamo a visitare, sebbene non abbia le caratteristiche quantitative e qualitative per poterla definire e considerare un’antologica, è sufficientemente rappresentativa dell’opera di Arnaldo Dini e della sua evoluzione nel tempo.

La prima annotazione che sorge spontanea è che la sua arte ha un fondamento chiaramente figurativo che supporta in vario modo le sperimentazioni che via via l’artista intraprende, delle quali si compiace e che porta avanti con passione perché sono quelle in cui si riconosce e si identifica, diverse e originali, tanto da determinare la sua maniera, il suo fare, il suo logotipo. Allievo dell’Istituto d’Arte “Paolo Toschi” di Parma, ma poi diplomato a quello non meno prestigioso di Bologna, Dini ha avuto quale maestro che lascia il segno sugli allievi il professore Nando Negri, che non si è limitato da impartite le sue lezioni dalla cattedra, ma lo ha poi seguito da presidente della Galleria Sant’Andrea, che non dimentichiamolo, prima ancora di essere uno spazio per esposizioni, è un circolo culturale dove i differenti stili e modi si incontrano e si confrontano.

Il grande dipinto della Resurrezione nella chiesa di Sant’Evasio

Una delle sue prime opere, certo un’opera ampia, complessa, destinata a connotare la personalità di un artista e in un certo modo a condizionare la successiva attività, è stata quella relativa al ciclo pittorico della Resurrezione nella chiesa di Sant’Evasio a Parma, di cui la critica si è ampiamente occupata in passato ed anche in questa mostra possiamo avere la possibilità di valutarne la portata attraverso l’osservazione di alcuni cartoni preparatori che l’artista ha giustamente conservato dopo averli ricuperati in una soffitta, restaurati e riportati su pannelli di compensato.

E, per comprendere meglio quest’opera di arte sacra e per collocarla nel suo tempo, sembra opportuno domandarsi cosa si faceva sul tema al tempo della sua formazione culturale e qual era la tendenza artistica dei maestri che all’epoca o poco prima operavano in Italia e in particolare nell’ambiente che girava intorno all’Istituto d’arte parmigiano.

Tra le due guerre, molto intensa è stata l’attività dei pittori parmigiani impegnati nel decorare ex novo o a restaurare volte e pareti di chiese. Di recente, nel delineare la biografia di un singolare pittore che era anche prete, mi riferisco a don Alberto Tadè, mi sono chiesto quanti altri pittori e scultori operarono nel settore dell’arte sacra in quel periodo e dalla mia seppure sommaria ricerca sono uscite decine di nomi illustri, da Latino Barilli a Giovanni Fabbi, da Enrico Bonaretti a Carlo Corvi, da Guido Montanari a Umberto Concerti e tantissimi altri tra cui il cremonese Giuseppe Moroni, giunto nel Parmense dopo una lunga esperienza romana. E tra gli insegnanti che Dini ebbe all’istituto Toschi, di arte sacra, come detto, si occuparono Nando Negri, ma anche lo scultore Corvi.

Caratteristica comune di questi artisti, che peraltro in opere di genere, diciamo così, profano possedevano una distinta personalità e perseguivano strade diverse tra loro, – noterete che per brevità sto un pochino classificando in una materia che ha invece tante sfumature – questi artisti, dicevo, in fatto di arte sacra si richiamavano, anche in conseguenza delle indicazione che fornivano loro i committenti – alle correnti dei Pre-Raffaelliti e dei Nazareni, due fenomeni artistici che si erano affermati un secolo prima facendo convergere a Roma artisti inglesi e germanici.

Di recente a Roma si poteva visitare una mostra sui Pre-Raffaelliti, il più famoso dei quali è stato Dante Gabriel Rossetti, ma al caso nostro fanno di più i Nazareni, la cui opera principale ho visitato sempre a Roma al Casino Massimo nei pressi del Laterano. Qui i pittori giunti dalla Germania – ricordo Friedrich Overbeck tra tutti – e che si richiamavano all’antica pittura medioevale, hanno affrescato tre grandi stanze dedicate alla Divina Commedia, all’Orlando Furioso e alla Gerusalemme Liberata. Cosa ci dicono, queste pitture? Da un lato la dolcezza di espressione delle figure evangeliche, di madonne, angeli e santi e dall’altro la lotta sostenuta da alcune figure più o meno mitiche e leggendarie della Chiesa contro il diavolo, il drago, le forze del male. Queste opere compaiono proprio nei primi decenni dell’Ottocento, quasi in contemporanea con la caduta di Napoleone, l’Anticristo, l’imperatore che aveva sottratto non soltanto beni e opere d’arte alle istituzioni religiose, ma aveva imprigionato lo stesso pontefice. E la lotta della Chiesa contro lo Stato laico e liberale continua lungo il secolo, si trasferisce nelle aule parlamentari e si trasforma in leggi eversive. Ecco dunque il duplice simbolismo dei Nazareni.

Naturalmente il simbolismo militante si va attenuando col tempo tra i seguaci dei Nazareni, mentre rimane quella dolcezza di tratto nelle raffigurazioni di arte sacra che ricordano Giotto e Beato Angelico e che caratterizzano anche l’opera dei frescanti nostrani fino alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Le decorazioni murali nelle chiese di Parma

Fino agli anni Quaranta e persino negli anni Cinquanta, dunque, i pittori che lavorano nelle chiese del Parmense si ispirano a quelle antiche raffigurazioni sacre che precedono il Rinascimento, incuranti delle nuove avanguardie artistiche già operanti anche Italia. Tra le chiese più importanti costruite a Parma cavallo della guerra, ne restavano almeno due non compiute, che come contenitori di arte sacra ebbero sorte molto diversa. C’era da rifare anche la grande vetrata della facciata del Duomo distrutta dai bombardamenti alleati, e ci penseranno Guido Montanari e Carlo Corvi con abile operazione mistificatoria sia del moderno che dell’antico e che comunque meriterebbe un discorso a parte. Torniamo alle chiese. La prima era quella del Sacro Cuore, nei pressi di Via Solferino, che presentava pochi spazi liberi per le pitture anche perché in realtà si trattava della sola cripta dell’imponente tempio progettato nel 1937 dall’ingegnere romano Carlo Pouchain e fortunatamente mai completato. Qui, nella lunetta del Fonte Battesimale, nel 1952, Umberto Concerti dipinse un bel Battesimo di Gesù nel Giordano in maniera molto personale, ma ancora con richiami ai Nazareni. Invece quella del Corpus Domini, venne costruita nel 1938-39 dall’ingegner Sisto Dalla Rosa Prati ma è dipinta nelle grandi pareti bianche dell’abside nell’estate 1966 da un pittore che rigetta completamente i Nazareni, ha un percepibile sentore espressionista e non pennella disinvoltamente madonne, angeli e santi ieratici ma senza volto, bensì uomini vivi e presenti nel mondo politico, nella chiesa, nel cinema e nella vita quotidiana della città. Walter Madoi è il pittore che traghetta nella chiesa del Corpus Domini – come farà in quella di Sesta di Corniglio, l’ispirazione ecumenica del Concilio Vaticano Secondo.

Pochi anni dopo Arnaldo Dini viene incaricato di decorare con un grande dipinto di circa 24 metri quadrati la chiesa dedicata a Sant’Evasio, omonimo del vescovo in carica, che sta sorgendo nel nuovo Quartiere Giovanardi, nei pressi di Via Fleming, progettata dall’ingegner Vincenzo Banzola. Lo stesso progettista così ne sintetizza l’opera al momento dell’inaugurazione: “Comprende in un unico blocco l’aula dell’assemblea liturgica, gli uffici parrocchiali, il salone e le aule catechistiche. L’ingresso è situato sotto il campanile a vela. Il cemento nudo, dentro e fuori, è il supporto formale della chiesa. Il battistero è a lato del presbiterio. Al pittore è riservato un grande spazio dietro l’altare, esegue il bozzetto e si appresta a tradurre sul cemento il grande dipinto dove il Cristo risorto è stretto dalla folla che fa corona intorno all’altare”.

Il vescovo monsignor Evasio Colli, che ha sempre avuto una cura particolare per il decoro delle chiese della sua Diocesi, inaugurerà il tempio il 6 dicembre 1970, poco prima della sua scomparsa. Dietro l’altare viene collocato il bozzetto, perché il dipinto non è ancora terminato e, se non vado errato, non lo vedrà mai finito perché morirà pochi mesi dopo, il 13 marzo 1971.

La nuova generazione di artisti del secondo dopoguerra non esita a confrontarsi con i grandi temi della contemporaneità: l’alienazione dell’uomo, la secolarizzazione dei miti, i pericoli della società e dell’economia di massa, la guerra come mostro sotterraneo e in agguato, la ricerca della fede come luogo dei valori originari. Del resto l’artista è pur sempre un testimone del suo tempo e partecipa al mondo artistico generale.

Questo sentire si avverte anche nel dipinto di Dini, sia pure con toni meno drammatici. Egli colloca la presenza di Cristo fra le strutture umane e sociali del quartiere e gradua un pacato rapporto figurale con la persona e con il paesaggio. L’architettura leggera delle case si apre alla chiara tensione dei significati, in cui si affollano i volti dei presenti e sono visi bene individuati in una precisa scelta cromatica, e cioè riconosciuti nella sfera delle emozioni e dei sentimenti. Le figure si avanzano in primo piano, ai lati di Cristo, quasi a congiungersi con l’assemblea vivente della Chiesa. E’ un sereno invito che si rivolge all’intimità delle coscienze.

Qui la pittura si semplifica, ma anche si monumentalizza. Sotto il profilo formale – sarà una provocazione, ma a me non dispiace andare contro corrente – nell’insieme il dipinto, specialmente se visto di lontano, potremmo collocarlo tra gli astratti e i seriali. E mi vengono i mente i nomi di Dorazio, Turcato e Perilli che avevano dato vita qualche anno prima al gruppo Forma 1 di Roma. Mentre i grandi caseggiati quasi sospesi sullo sfondo mi ricordano quelli del pittore e poeta milanese Emilio Tadini anzi, per contrapposizione, richiama le allucinate visioni di Kurt Vonnegut e le occhiaie vuote delle case di Dresda nelle foto dopo i bombardamenti. O no? Forse. Chissà.

Ho divagato un po’ e torno al tema. Questo Cristo che cammina tra i palazzoni anonimi del quartiere è uomo tra noi, con noi. E la folla che lo segue si accosta fidente a questa luce catalizzatrice. Gente eterogenea, ma tutta spinta da un unico denominatore identificato nella pace dello spirito. E a fianco dei grandi apostoli della pace come il Mahatma Ghandi, insieme a Martin Luther King, insieme a John Fitzgerald Kennedy, insieme a Madre Teresa di Calcutta, insieme ai due papi Giovanni XXIII e Paolo Vi, vi sono i vescovi, i sacerdoti e i religiosi di Parma e poi il progettista, il parroco ispiratore e tanta gente del quartiere che si poteva riconoscere. E in un angolo, quasi appartato, ma più su degli altri, padre Lino, quasi si vergognasse di essere in quella compagnia anche perché anacronistico, il più povero tra i poveri, che odorava di sigaro e di pane stantio. Naturalmente Dini sottolinea le varie figure giocando sulla dimensione e sul particolare colore del volto. Il cromatismo dei visi, infatti, assume la funzione identificatrice delle singole interiorità.

Dal ciclo delle pietre a quello dei fili alla ricerca del senso della vita

Ma in questa mostra ci sono tante altre opere sulle quali vale la pena intrattenerci. Contemporaneamente al dipinto di Sant’Evasio, Dini ha cominciato a rappresentare la pietra, la pietra dure delle sue montagne come metafora della perdita del senso umano, della comunicazione dei contatti con l’altro: l’uomo diventa di pietra. E in quelle pietre ritroviamo Corniglio, suo paese natale, e leggiamo il disagio di un tempo: i cieli si fanno lanosi e le tonalità ingrigiscono; ci si ritrova in un universo intangibile, metafisico e così irreale da rappresentare come meglio non si uò la sfiducia, lo sconforto, la mancata appartenenza. L’inquietudine che affratella. C’è anche un po’ di Sessantotto in questi lavori. C’è mitezza di forme, ma ribellione e contrasto nella sostanza.

Un futuro d’angoscia e di trepidazione pare profilarsi per l’uomo che si sta pietrificando e paralizzando nell’impotenza di dominare quei micidiali processi distruttivi che egli stesso ha messo in moto. Egli rischia di perdere tutto ciò che lo aiuta a vedere, a capire, a sentire, ad agire e di rimanere solo in uno scenario arido e angosciante tra sinistri profili di minacciose costruzioni.

Queste opere – Il cavaliere e il soldato, La robotizzazione dell’uomo, Il giorno dopo, prefigurano un 11 settembre anticipato di una ventina d’anni e più. Ma ecco che compaiono i primi tondini: sbucano dal cemento che compone le figure: un filo di speranza che pare scendere dai suoi cieli azzurri, aperti, luminosi, quasi profumati, come ha scritto un poeta del valore di Giuseppe Marchetti.

È la sua felice e originale intuizione del filo che congiunge gli uomini e li lega al mondo della natura e al tempo. Un esile e mobile supporto che rappresenta la continuità di un’esperienza antica e sempre nuova. Nel rimando – o, come dice lui “Richiamo” – le volute del filo si fanno narrazione, melodia musicale e, guidando la mano dell’artista, delineano le figure, ne connotano la meta e il destino. Il filo è il motivo conduttore di una storia artistica che si evolse ed assume forme mutevoli nel tempo, un filo di consapevolezza realistico della quotidianità, ma anche un “filo di Arianna” mitico e inafferrabile.

I figli dei fiori

Rientra in questo generale interrogarsi sul senso della vita anche il grande olio su tela degli anni Settanta I figli dei fiori, di cui noi vediamo ora il cartone preparatorio, delineato in un modo figurativo accostabile all’asciutta raffigurazione sacra. Qui Dini coglie il mondo hippy, coi suoi riconoscibili adepti, a confronto tra la natura incontaminata alla quale aspirano e il mondo reale nella sua complessità. Anche qui i volti, le trame degli alberi, gli abiti, resi con la mano sicura di un maestro, fanno parte di uno scenario più ampio e sfaccettato, che si snoda in un ampio piano visivo dove ogni gruppo, ogni protagonista racconta il proprio percorso e la comunità mette in luce un ideale. I figli dei fiori sono personaggi reali ritratti dall’artista dal vero, ma da lui collocati negli atteggiamenti e negli abbigliamenti da lui immaginati sullo sfondo familiare della faggeta dei Lagoni, nel rispetto di una ambientazione veristica.

Sempre eseguiti con la tecnica dei fili, ma più sciolti e ironici i dipinti su fogli di giornali preventivamente adombrati con una mano di vernice bianca trasparente, dove il pittore ri-racconta a suo modo, con la sua fantasia le storie che appaiono nei grandi titoli di stampa, come è il caso di “A Verdi piace l’«Inferno»”. Quale Inferno? Forse non esattamente quello di Dante. Falstaff o il duca di Mantova, “Tutto il mondo è burla” o “La donna è mobile”? Fate voi.

Ho ripercorso queste opere nei giorni scorsi con l’aiuto dello stesso pittore e della sua impareggiabile consorte, che scopro ora anche poetessa, e con l’attenta lettura di testi critici relativi a precedenti mostre. E le ho riviste con occhi curiosi cercando il meglio dalle precedenti valutazioni senza eccedere, spero, nel voler trovare ad ogni costo qualcosa di originale. Se quanto ho detto servirà a chi ha ascoltato di cogliere qualche aspetto nuovo nell’arte di Arnaldo Dini ne sarò contento. Del resto davanti al quadro sta lo spettatore e, nel sentire o meno un fremito o un’emozione che gli trasmette l’opera d’arte, nessun altro lo può sostituire.

Come… Respiri. Dipinti e poesie a confronto

Termino col dire poche parole sulle illustrazioni al volumetto di poesie di Clementina Balocchi, moglie di Arnaldo Dini. Come… Respiri presenta composizioni che quasi vogliono ritmare il respiro, la vita stessa del lettore. Versi ricchi di impressioni semplici e immediate, fantasiose e toccanti l’intimità più riposta. Le illustrazioni per la maggior parte appartengono alla serie dei fili che, abbiamo già visto, connotano l’esistenza umana. E in questo senso deve essere letta, dopo le composizioni di Clementina Balocchi, anche l’epigrafe finale del delicato poeta neoromantico boemo di nascita, di cultura austriaca – ma anche italiana – Rainer Maria Rilke.

Molto pertinente mi è sembrata la copertina, che riproduce uno dei coperchi di una valigetta di cartone. La vedremo da vicino in mostra questa valigetta, quasi una metafora di uno dei fenomeni più drammatici del nostro tempo: l’emigrazione. L’emigrante sembra essere respinto dalle foreste che stanno in basso, attraversa un mare insidioso come un labirinto e approda alla civiltà dei grattacieli. Sarà un vero progresso? È questa la domanda – secondo la mia personale interpretazione – che si pone l’artista.

La signora Clem, che ci leggerà alcune sue poesie, mi ha chiesto di sceglierne una e l’occhio mi è caduto su quella dedicata a sua madre, cui fa da sponda una bella e filiforme Maternità di Arnaldo Dini. Nell’insieme una scena che se forse non sintetizza appieno tutta l’opera, certo è ricca di significati.

Ubaldo Delsante

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