La musica dei colori

LA
MUSICA
DEI
COLORI
Nella pittura di Arnaldo Dini

Sono passati trent’anni da quando Arnaldo Dini si è imposto definitivamente all’attenzione della critica e degli appassionati d’arte con il vasto e innovativo affresco della Resurrezione, carico di significati simbolici ed eseguito per la parete absidale della chiesa di Sant’Evasio. Da allora il suo itinerario artistico si è snodato nel segno di un’attenzione costante all’uomo, alla sua avventura esistenziale e a quanto lo circonda, cogliendone le mutazioni, le trepidazioni, le attese, le speranze con partecipe sensibilità e con un linguaggio luminoso e quieto al quale si addicono le parole di Khalil Gibran <La bellezza è fatta di bisbigli/ appena sussurrati./ Essa parla nel nostro spirito./ La sua voce si arrende ai nostri silenzi/ come luce fioca che trema/ per paura dell’ombra>. Questa grande mostra antologica, quindi, oltre a documentare le tappe del percorso compiuto, traccia un bilancio di decenni di impegno costante, illuminato e fecondo. Nel lavoro in Sant’Evasio Dini denotava già una raggiunta maturità pittorica attestata, del resto, dalle precedenti esposizioni nelle quali palesava i risultati di una lunga ricerca sulle espressioni ambientali e umane più autentiche della nostra montagna – cui è particolarmente legato essendo nato a Corniglio – sulla scia degli insegnamenti appresi all’Istituto d’arte Paolo Toschi dove è stato allievo di quel sensibilissimo maestro che è Nando Negri. E nella mostra alla Galleria Parma (giugno ’69) la critica ha sottolineato questo suo rivolgersi verso <le radici popolari, nutrite dalla tristezza patetica e dalla vena fantastica nel tentativo di una pittura sorgiva dalle tradizioni locali. Così si interpretano le figure dolenti che sembrano uscite dai racconti della montagna, i boschi corruschi che accennano a leggende lontane, le atmosfere minacciose che calano dai cieli scuri> ( Gianni Cavazzini su la Gazzetta di Parma) . Ricercatore attento e curioso, l’anno seguente, sempre alla Galleria Parma, propone alcune pietre dipinte, come sottolinea Giovanni Pettenati sull’Opinione Pubblica: <L’artista non ha dimenticato le consuete tematiche: il volto assorto di una fanciulla, quel respirar la medesima aria che sostanzia l’amicizia dei gruppi, i fiori, gli alberi tentacolari di radici e rami. Ma le forme e i toni, per una via segreta, han trovato parentele e affinità, livellando i salti precedenti dalle fiammate di una corolla al sommesso incarnato di un viso. Tuttavia la dialettica fra canto spiegato e sotterranea sensualità rimane aperta a sommuovere la polifonia dei diversi elementi – e a testimoniare della giovinezza di questa pittura – dalla grande scena messinese o dal groviglio di corpi, all’ingresso, ove la solitudine di sempre si alza di un tono nello smarrimento e nella tragedia, ai brani sulla pietra liberamente sagomata dal caso, ulteriore esigenza di immediata spontaneità>. L’esigenza di dipingere su lastre di pietra, Arnaldo Dini la spiega così a Carlo Drapkind <E’ un atto di amore verso la mia montagna. Sono nato in un piccolo centro dell’Appennino, Corniglio, e le piagne le ho portate con me, idealmente, ad esprimere il duro lavoro, la fatica della gente della montagna, il suo temperamento forte, robusto>. Le lastre vengono esposte pure nelle successive mostre di Pontremoli e Viadana, cosicché l’artista inizia ad essere conosciuto e identificato come <il pittore delle pietre>. <Le sue opere – si legge sulla Gazzetta di Mantova – colpiscono particolarmente il critico e l’osservatore per l’armonia e la forza espressiva che sanno trasmettere; per la profondità di uno sguardo, la soave dolcezza di un volto. Una peculiare sensibilità d’animo Dini sa inoltre imprimere nei temi religiosi, abbastanza ricorrenti tra le sue opere, che ha impresso con nobiltà d’animo sulla pietra; quella pietra che ha costituito per lunghi anni il suo ambiente di giovane ispirato e sensibile>.

E il tema religioso, già svolto in varie singole immagini, si fa espressione corale, sinfonica nell’affresco di Sant’Evasio in cui la Resurrezione è rappresentata con un’iconografia innovativa, che vede il Cristo perennemente risorgente anche ai giorni nostri. <Questo Cristo – ho scritto ne La chiesa di Sant’Evasio edito nel ’71 – che cammina tra i palazzoni anonimi di via Jenner, è uomo tra noi, con noi. La sua tragedia è segnata appena da due macchioline rosse sui polsi. Più che la morte vuol ricordarci la sua vita di risorto. La grazia la si ritrova là, in quell’altare verso cui ci indirizza, ci invita. Non sotto l’alternativa di pene angoscianti, ma con la serenità disarmante dell’ amore, di quella charitas che è la prima radice del cristianesimo. La folla lo segue; si accosta fidente, tranquilla a questa luce catalizzatrice. Gente eterogenea, ma tutta spinta da un unico denominatore identificabile nella pace dello spirito.

Nessuno di costoro però rinuncia alla propria personalità, che Dini ha sottolineato con un ben definito senso del volume e un particolare colore del volto. Il cromatismo dei visi, infatti, assume la funzione identificatrice delle singole interiorità. Ecco Paolo VI col largo gesto suasivo, che invita verso il Redentore; ecco il viso dolce, da pastor bonus, di Giovanni XXIII; l’arcivescovo recentemente scomparso Evasio Colli, che tanto si adoperò per le chiese di periferia, e questa in particolare; l’amministratore apostolico Amilcare Pasini; i grandi apostoli della pace John P. Kennedy, Martin Luther King, Mahatma Gandhi; gli operai quotidiani dello spirito, i sacerdoti; e tanti altri, anonimi per la massa ma non per chi li guida: uomini dal volto inflaccidito dagli anni, donne dai lunghi capelli lisci, madri, bimbi coi loro giocattoli. Il pittore li ha fotografati nel quartiere e li ha impressi li, vicino al grande Cristo che è risorto per loro; ed anche oggi continua a camminare in queste strade larghe e veloci dell’estrema periferia che sfrangia in urta campagna sempre più lontana e guardata con ostilità unita a nostalgia perche in quest’ultimo asfalto si sono insediati molti che l’hanno ripudiata. Laggiù, in fondo, un lembo d’Appennino. Dini non poteva dimenticarlo. Viene di là ed è forse questa sua origine che l’ha portato a dipingere prima sulla pietra, poi sul cemento armato>.

Oltre alla tematica religiosa, Arnaldo Dini si dimostra sensibile ai problemi che stanno investendo la società tra la fine degli anni Sessanta e l’ inizio dei Settanta quando, sotto la spinta di una crescente industrializzazione, molte persone lasciano la campagna coi suoi antichi, radicati risvolti umani e si inurbano in periferie senza storia, squallide e anonime.

L’affresco realizzato in S. Evasio gli procura altre commesse in un genere di pittura che in pochi ormai sanno eseguire. Cosi nella residenza dell’imprenditore Notari a Corniglio nel ’72 sviluppa il tema della montagna quale luogo in cui si torna per ritrovare serenità e amicizie. Un messaggio di speranza che ripropone nelle tele esposte nel ’74 nella sala-studio di via Oberdan. <Serenità e speranza – sottolineavo in quell’occasione – sono le componenti che informano le opere di Arnaldo Dini, pittore che affronta i temi che la vita quotidianamente ci propone con un pudore derivante da una sensibilità acuta e riservata>. Nel frattempo prosegue l’attività di frescante con <I figli dei fiori> (1973) eseguito in un’abitazione di Parma; <L’estate sul Po> a Roccabianca (’75); <L’Ascensione> nel cimitero di Pidenza (’78); <L’evoluzione dell’uomo. Episodi dell’era spaziale>(’79).
All’inizio degli anni Ottanta l’Avis provinciale si rivolge a lui per un’opera simbolica sul valore della donazione da collocare nel santuario della Madonna delle spine di Sissa, eletta protettrice provinciale dei donatori. Un tema impegnativo che viene brillantemente risolto con la suddivisione di una alta tavola (m. 2,20 x 1) in tre parti: in quella superiore spicca la venerata immagine della Madonna delle spine col Bimbo in braccio, circondata da teste di angeli; al centro sono rappresentati tre donatori che generosamente porgono il loro braccio da cui sgorgano preziose gocce di sangue, raccolte in un recipiente ad imbuto, simbolo dell’ immensità di chi dona e di chi riceve il dono, mentre una sveglia simboleggia la perennità del dono stesso; nella fascia inferiore un paziente, amorevolmente assistito da una donna, rappresenta la concreta finalità della donazione avisina.
Il quadro sissese costituisce uno degli ultimi lavori in cui l’artista si esprime con un linguaggio legato alla figurazione naturalistica. Gli anni Settanta hanno segnato pesantemente l’ltalia sia dal punto di vista sociale e politico con le stragi di vario colore, sia dal punto di vista artistico con lo svilupparsi di una forte corrente contraria alla pittura dipinta e favorevole ad altre forme espressive quali l’arte povera, l’arte concettuale, il minimalismo, e così via. Arnaldo Dini rimane profondamente colpito da queste violente tensioni che agitano la società e i suoi <personaggi> diventano un insieme di pietre legate dall’ interno col ferro. L’uomo si è indurito, ha pietrificato sentimenti ed emozioni per percorrere un mondo che gli è ostile e lo costringe a combattere, ben rappresentato da un dipinto del ’79 in cui un cavaliere si scontra con un soldato appiedato nell’eterna lotta esistenziale.

Un futuro d’angoscia e di trepidazione pare profilarsi per l’uomo che <si sta pietrificando – paralizzando nell’impotenza di dominare quei micidiali processi distruttivi che egli stesso ha messo in moto. Egli rischia di perdere tutto ciò che lo aiuta a vedere, a capire, a sentire, ad agire e di rimanere solo in uno scenario arido e angosciante tra sinistri profili di minacciose costruzioni. La natura è desolata e inaridita dalla scomparsa della vitalità e della rigogliosa bellezza: i rami senza foglie si contorcono e si protendono, i paesaggi sfumati dai toni profondi hanno colori di presagio. E Dini ne coglie la centrale essenzialità, mentre i nuovi esseri, solidificati in dense compattezze, si stagliano in primo piano con un potente rilievo. Ma nel loro interno c’è ancora – ecco il primo flebile segno di speranza – un elemento unificante: un robusto filamento di ferro che si ramifica negli arti e sostiene tutta l’impalcatura corporea. Nei dipinti successivi la ruvida massa si trasforma in blocchi squadrati che evidenziano maggiormente questo legame, interiore, che si fa più vi talmente determinante. E quando nei momenti più cupi i filamenti si spezzano, lasciando cadere i blocchi inerti, i monconi di ferro, messi a nudo, vibrano, si torcono in un ultimo spasmo tra i cieli solcati da bagliori irreali. E’ la speranza però a prevalere in Dini sotto forma di una vita nuova, che si presenta depurata da ogni scoria precedente. Il filo vitale – <della vita> – che si libra liberamente nello spazio, che annuncia un’alba novella si piega, si modifica fino a ridiventare forma, figura, essere vivente, uomo: rinnovato protagonista di un mondo totalmente trasformato>.

Il messaggio di Dini è quindi un messaggio di fiduciosa speranza anche nei momenti più desolanti. Lo conferma Stefania Provinciali che recensendo la mostra alla Galleria S. Andrea (1982) scrive: <Se così tutta l’opera di Dini appare velata da un sottile pessimismo, essa rivela tuttavia una costante fiducia nella vita e nelle risorse dell’uomo e quindi la consapevolezza che solo dove c’è l’uomo può esserci vita>. Anche Giuseppe Marchetti in occasione dell’inaugurazione della personale a S. Ilario d’Enza (dicembre ’84), dopo aver definito i lavori dell’artista <opera di straordinaria poesia>, sottolinea come la pittura a prima vista appaia <angosciata, livida, tumefatta per la violenza del soggetto> ma osservando i cieli si scoprono <aperti, luminosi, direi profumati>. <Questa non è una pittura fine a se stessa, ma con una profonda carica umana e sociale che lascia trapelare l’attesa di una successiva fase>. E questa avviene con una trovata di grande originalità, l’uso del tondino di ferro come elemento descrittivo e creativo. <I tondini via via si modificano: non sono più quelli di prima fissi, duri, neri, strappati dalla violenza delle cose: ora è un tondino che si ricostruisce, fiorisce, si apre su se stesso lasciando filtrare la luce. E’ questo un modo, uno stile particolarmente originale, nuovo che non ho trovato mai in nessun altro pittore>.

Con questi filamenti di ferro Arnaldo Dini <ricostruisce> l’uomo, la natura, gli alberi, il paesaggio con una carica espressiva che vibra in sintonia con la struttura cromatica. E la chiave di lettura dei sentimenti, delle emozioni dei protagonisti sta qui, nei colori leggeri che percorrono trepidanti la tela e lanciano i loro messaggi che col tempo si fanno sempre più rasserenanti. Le sue figurazioni – ha scritto Vera Franci Riggio in occasione della mostra alla Galleria Michelangelo di Firenze nell’89 – <fondono la semplicità di una rappresentazione lineare ed essenziale con l’ambiguità di un linguaggio sotteso di inquietudine. Sono immagini sospese in una dimensione arcana, dove la realtà si colora di un simbolismo onirico e i volti ridotti, quasi sempre, alla schematizzazione del puro contorno, hanno tuttavia uno spessore quasi scultoreo, costruiti come sono intorno ad un cardine centrale che frantuma l’uniformità della superficie e crea uno spirito illusorio, lungo il quale sembra saldarsi la convessità dei piani laterali. Nella composizione di Dini c’è inquietudine ma non disperazione e il pesante fardello delle problematiche che gravano oggi sulla natura e sull’uomo si scioglie nella chiarezza consolatoria di un invito alla speranza che, sia pure faticosamente, filtra tuttavia con dolcezza attraverso il linguaggio di un segno incisivo e tormentato>.

Negli anni Novanta le forme iniziano a riempirsi di colori più consistenti che vestono gli alberi e i fiori di una gioiosa vitalità e arricchiscono la caratterizzazione dei personaggi. Un importante riconoscimento Dini lo ottiene ad Arzachena dove la giuria del Premio nazionale, presieduta da Aligi Sassu, premia la sua <Maternità>. Espone successivamente a Salsomaggiore, a Langhirano, e propone e coordina la ripresa a Corniglio dell’iniziativa del <Muro dipinto>, che trasforma le facciate delle abitazioni del centro appenninico in murales di richiamo.

I suoi personaggi vivono immersi nella realtà del quotidiano, sottolineata dai fogli di giornale che per un certo periodo di tempo costituiscono i significativi sfondi che interagiscono dialetticamente coi protagonisti, il cui viso resta avvolto nel mistero: quel mistero che è l’insondabilità dell’animo umano così difficile da comprendere nelle sue complesse sfumature. I personaggi, pur senza lineamenti, non sono manichini metafisici, che vivono nella loro astrazione; sono invece uomini, donne, giovani, ragazze, che partecipano con intensità alla vita che si muove intorno a loro, ma soprattutto dentro di loro. E quando i fogli dei giornali scompaiono, emerge il paesaggio urbano con le sue implicazioni.

Quella di Arnaldo Dini è una pittura – annota il critico d’arte Giorgio Falossi – <il cui pensiero diviene filosofia; l’impostazione è storica, ponendo l’osservatore di fronte ad un impegno oltre che visuale anche di riflessione mentale. Umiliata, troppe volte mutilata, la natura è ancora pronta a dare e l’umanità può essere riscoperta in quelle sue piaghe ove vivere non è solo combattere per avere, per strappare, per mortificare. Su questo filo corre l’ultima pittura del Dini. Assottigliato certo, fragile anche, contorto per alcuni camminamenti, ma scevro di orpelli e pesi che affondano. Chi sono questi personaggi? Sono i guerrieri di tutte le guerre, con le mani alzate, i Cristi crocifissi, le giovani donne, gli innamorati, le colombe, le maternità. Arnaldo Dini si conferma pittore di storia e di pensiero. La sua traccia corre veloce, sembra ora chiarire, puntualizzare>. Il sociologo Alessandro Bosi a sua volta osserva: <Dini ci aiuta a guardare non già l’oggetto, ma attraverso l’oggetto. Il nostro sguardo non si arresta in ciò in cui si imbatte, le cose che vediamo non sono un muro invalicabile, al contrario, sono, sempre, strumenti di conoscenza e dunque opportunità per vedere di più e oltre. Davanti a questa finestra, che ricorda le ardite soluzioni di Magritte, ma che qui è corpo, è individuo oltrepassato dalla sguardo, Dini fa scorrere, da qualche tempo, pagine scelte della Gazzetta di Parma. La cronaca, il documento, la notizia, il senso del presente irrompe così sulla tela attraverso quella bibbia dell’uomo contemporaneo che è il quotidiano>. <Un quadro vale solo attraverso lo sguardo di chi l’osserva> ha scritto Pablo Picasso. Questo concetto si attaglia perfettamente alle opere di Arnaldo Dini che con la loro apertura di ampio respiro lasciano la possibilità di approfondire le tematiche affioranti: le figure, infatti, recuperate nella loro identità alla fine degli anni Novanta, sono essenziali, mentre il colore è ricco di fermenti, di vibrazioni. Le tessere cromatiche rivelano una cristallina chiarezza, reti di forze giocate su contrappunti che sembrano corrispondere a criteri musicali per il ritmo armonicamente serrato in cui l’unità si ricompone attraverso le diversità. L’artista è assorbito dal laboratorio della sua trasfigurazione, un’alchimia interiore che trasforma la superficie del quadro in magia ottica.

Tutto il suo percorso, ormai lungo, è stato contrassegnato da una costante quanto cauta sperimentazione, che sfocia ora in alcune proposte che superano la tela e coinvolgono forme più complesse. E non è un caso che questi oggetti pittorici più articolati vengano presentati proprio in questa rassegna antologica, allestita nella misurata architettura rinascimentale dei chiostri e degli ambienti del monastero benedettino di San Giovanni Evangelista, in cui il solenne equilibrio classicheggiante dialoga per contrapposizione con queste strutture modulate su piani diversi, come dorsali di contenitori di un immaginario fabulistico, oppure a forma di scatole dipinte da entrambi i lati: magici scrigni si speranze e di utopie, che sono poi gli elementi che maggiormente caratterizzano la produzione di Arnaldo Dini.

Pier Paolo Mendogni