Non c’è Berceto in agosto senza una mostra di Arnaldo Dini. Ormai è diventata un mantra per i villeggianti appassionati d’arte. Il maestro, certo uno dei decani della pittura parmense, ha la capacità di sorprendere senza variare o peggio tradire la sua impostazione tecnica e culturale insieme che porta avanti da tanti anni senza deflettere o cercare radicali varianti.
Questa mostra ha un titolo, Uomo del mio tempo…, al quale se ne può aggiungere un altro, magari come sottotitolo, ma bene in evidenza: Quando le pietre parlano, come suggeriva la sua impareggiabile consorte e in certi casi Mentore, nei giorni scorsi, mentre discorrevamo e loro posizionavano e riposizionavano i quadri in questo salone. E io ne proponevo un altro ancora, naturalmente del tutto in subordine rispetto a quelli autentici, mutuato in parte da Ferdinand Céline, Viaggio ai confini dell’uomo. Vedremo poi perché.
La prima annotazione che sorge spontanea è che la sua arte ha un fondamento chiaramente figurativo e supporta in vario modo le sperimentazioni che via via l’artista intraprende, delle quali si compiace e che porta avanti con passione perché sono quelle in cui si riconosce e si identifica, diverse e originali, tanto da determinare la sua maniera, il suo fare, il suo logotipo. Allievo dell’Istituto d’Arte “Paolo Toschi” di Parma, ma poi diplomato a quello non meno prestigioso di Bologna, Dini ha avuto quale maestro che lascia il segno sugli allievi il professor Nando Negri, che non si è limitato a impartite le sue lezioni dalla cattedra, ma lo ha poi seguito e incoraggiato.
Una delle sue prime opere, certo un’opera ampia, complessa, destinata a connotare la personalità di un artista e in un certo modo a condizionare la successiva attività, è stata quella relativa al ciclo pittorico della Resurrezione nella chiesa di Sant’Evasio a Parma, della fine degli anni Sessanta, di cui la critica si è ampiamente occupata in passato ed anche in questa mostra abbiamo la possibilità di valutarne la portata attraverso l’osservazione di uno cartoni preparatori che il maestro ha giustamente conservato dopo averli ricuperati in una soffitta, restaurati e riportati su pannelli di compensato.
L’artista colloca la presenza di Cristo fra le strutture umane e sociali del quartiere e gradua un pacato rapporto figurale con le persone e con il paesaggio. Le figure avanzano in primo piano, ai lati di Cristo, quasi a congiungersi con l’assemblea vivente della Chiesa. E’ un sereno invito che si rivolge all’intimità delle coscienze. Nel lacerto qui esposto si scorgono il proprio autoritratto e poi i profili di personaggi notevoli del tempo, come il presidente americano Kennedy e il papa Paolo VI fianco a fianco con la stessa moglie del pittore e altre donne, rimaste anonime, che animavano la vita della parrocchia e del quartiere. Una sorta di melting pot, dove i ruoli si mescolano e si integrano in perfetta eguaglianza, senza distinzione tra i più e i meno importanti.
Continuando su questo filone figurativo degli anni Sessanta e inizi anni Settanta, Dini viene incaricato di eseguire pitture murali in alcune ville e palazzi privati, tra le quali è il caso di ricordare I figli dei fiori, il cui grande bozzetto abbiamo visto lo scorso anno in mostra proprio qui a Berceto. Prosegue anche nella sperimentazione di nuove forme sul difficile terreno dell’arte sacra e sue prove importanti, anche ad olio su tavola, si trovano in chiese e santuari della provincia.
Ancora figurativa è la rappresentazione dei militari che sfilano in parata di fronte al loro capo, che potrebbe essere un dittatore, o meglio, la caricatura di un fürer come un gioco gonfiabile vuoto all’interno, sullo sfondo di sinistri bagliori di guerra. Sotto elmetti diversi l’uno dall’altro ma non identificabili, quasi a non voler prendere partito per una nazionalità o l’altra, i visi dei soldati sono atteggiati ad espressioni sempre mutevoli di gioia o di stupore o di stizza. I singoli, nella massa, sembra dire il maestro echeggiando Elias Canetti, hanno i loro sentimenti, ma poi marciano compatti.
Mentre la cosiddetta Guerra fredda raggiunge il massimo della drammaticità, al tempo del Vietnam e del conflitto arabo-israeliano, quando l’aumento del prezzo del petrolio costringe all’austerità, alle rimaste famose domeniche senz’auto, Dini comincia a rappresentare la pietra, la pietra dura delle sue montagne come metafora della perdita del senso umano, della comunicazione, dei contatti con l’altro: l’uomo diventa di pietra. E in quelle pietre ritroviamo Corniglio, suo paese natale, e leggiamo il disagio di un tempo: i cieli si fanno lanosi e le tonalità ingrigiscono; ci si ritrova in un universo intangibile, metafisico e così irreale da rappresentare come meglio non si può la sfiducia, lo sconforto, la mancata appartenenza. C’è anche un po’ di Sessantotto in questi lavori. C’è mitezza di forme e di accostamenti cromatici, ma ribellione e contrasto nella sostanza.
Ancora, però, Dini si rivolge al figurativo nel dipinto – siamo ormai negli anni Ottanta – con la ragazza in primo piano sullo sfondo di ciminiere che riempiono l’aria di fumi mefitici. La ragazza, dice il pittore, si domanda dove stiamo andando, dove ci porta la tecnologia se si è perduto il rapporto umano, se gli uomini smarriscono la spiritualità e diventano di pietra, se non c’è equilibrio tra sfruttamento delle risorse e rispetto del paesaggio e della salute dell’uomo. Diceva Einstein che il problema dell’umanità non sta nella perfezione dei mezzi, ma nella confusione dei fini.
Un futuro d’angoscia e di trepidazione pare profilarsi per l’uomo che si sta pietrificando e paralizzando nell’impotenza di dominare quei micidiali processi distruttivi che egli stesso ha messo in moto. Rischia di perdere tutto ciò che lo aiuta a vedere, a capire, a sentire, ad agire e di rimanere solo in uno scenario arido e angosciante tra sinistri profili di minacciose costruzioni, dove si aprono le porte dei vinti e dei deboli, perché quelle dei potenti, quando si aprono per loro, non cigolano mai.
E giunge qui opportuna una citazione che, nell’anno del Centenario della Grande Guerra, può rendere bene l’atmosfera di queste opere: una poesia di Ungaretti dalle pietraie del Carso.
Le opere successive, come Il cavaliere e il soldato, La robotizzazione dell’uomo, Il giorno dopo prefigurano un 11 settembre anticipato di una ventina d’anni e più.
E poi c’è il muro che separa e divide e fa diventare nemici tra loro gli uomini, ma dietro si può intravedere una linea d’ombra che forse li unirà tra loro. Ed ecco che compaiono i primi tondini; sbucano dal cemento che compone le figure: un filo di speranza e di ottimismo che pare scendere dai suoi cieli che diventano più azzurri, aperti, luminosi, quasi profumati, come ha scritto un poeta del valore di Giuseppe Marchetti.
È la sua felice e originale intuizione del filo che congiunge gli uomini e li lega al mondo della natura e al tempo. Un esile e mobile supporto che rappresenta la continuità di un’esperienza antica e sempre nuova. Il maestro ora si volge all’informale e al metafisico. Su di una trama di base, ricostruisce l’immagine attraverso le volute del filo, che spesso non è a linea continua, ma si compone di minutissimi tocchi di pennello quasi ad intrecciare un cordoncino di lana. Si fanno narrazione, melodia musicale e, guidando la mano dell’artista, delineano le figure, ne connotano la meta e il destino. Il filo è il motivo conduttore di una storia artistica che si evolve ed assume forme mutevoli nel tempo, un filo di consapevolezza realistico della quotidianità, ma anche un “filo di Arianna” mitico e inafferrabile.
Proseguendo negli anni, il filo si assottiglia e forma il suo nuovo stile che torna al paesaggio e alla figura in modo bidimensionale, senza perciò preoccuparsi della prospettiva, della profondità, della teoria delle ombre che si insegnano a scuola. Esprime delicatezza, armonia, una ritrovata pace nel declinare delle stagioni e nell’arrivo dell’autunno sottolineato dai sapienti accostamenti cromatici. Talvolta il pittore è anche introspettivo e autobiografico e, attraverso figure simboliche facilmente comprensibili, vuole comunicare che lui – ma ognuno di noi può e deve farlo – intende proseguire lungo il suo personale percorso con fiducia e convinzione.
Il futuro è rappresentato dalle ragazze che mostrano volti puliti e sinceri sullo sfondo di un bene augurante volo di gabbiani. Sono il simbolo dello spirito femminile positivo che è insito in ogni essere umano. Il viaggio ai confini dell’uomo si conclude dunque con una nota gentile. E così chiudiamo con un breve commento sulle poche opere di arte sacra qui esposte, due maternità e un Cristo in croce delineate con tecnica efficace ed originale.
Ubaldo Delsante
San Martino del carso
Di queste casenon è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato
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